Basta poco per essere licenziato. Una semplice parola fuori posto può costarti caro, soprattutto se rivolta al tuo superiore. La Cassazione non lascia infatti dubbi: anche uno solo scivolone verbale può valere il licenziamento in tronco. Vediamo cosa è accaduto e perché ogni lavoratore dovrebbe fare attenzione alle proprie parole sul posto di lavoro.
Licenziato per un insulto al superiore: il caso
La decisione della Cassazione, con l’ordinanza numero 21103, è partita da un caso emblematico. Durante una discussione su una variazione nel piano ferie, una psicologa, impiegata in una struttura che assiste persone con disabilità, perde la calma e apostrofa il proprio superiore con un epiteto volgare, chiamandolo “lecchino” davanti a una collega.
La reazione dell’azienda è immediata: licenziamento per giusta causa. La dipendente decide però di contestare il provvedimento in tribunale. In primo grado viene reintegrata e riceve anche dodici mensilità di indennità, dato che la sanzione era stata giudicata eccessiva rispetto all’accaduto.
Ma la storia non finisce qui: la Corte d’Appello ribalta tutto, confermando il licenziamento. Il secondo giudice sottolinea come la donna avesse pronunciato una parola volgare e qualificabile come ingiuria e gesto di insubordinazione, un comportamento espressamente vietato dal Ccnl di riferimento. E allo stesso modo si esprime poi la Cassazione.
Le circostanze che hanno aggravano la situazione
Nel motivare la sentenza, pesa non solo il tono dell’insulto ma anche il luogo e la presenza di testimoni. Insomma, la gravità del gesto è stata amplificata dalla situazione in cui è avvenuto, vale a dire in un ufficio e in presenza di terzi. Inoltre, la lavoratrice aveva già ricevuto un richiamo disciplinare per aver insultato il padre di un paziente, fatto che contribuisce a delineare una tendenza ai comportamenti offensivi.
La Cassazione non ha dubbi: una sola ingiuria basta per essere licenziato
Secondo la Suprema Corte, quindi, dichiarazioni come “lecchino” al superiore non sono fatti su cui si può transigere. Viene spiegato chiaramente che una sanzione conservativa sarebbe troppo lieve, perché un insulto di questa portata, espresso davanti ai colleghi, deve obbligatoriamente essere qualificato come insubordinazione aggravata dall’ingiuria.
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E non è tutto. Perché la Cassazione ha anche chiarito che nonostante il contratto collettivo parli al plurale di ‘litigi, ingiurie, risse’ non significa che siano necessari più episodi per rendere legittimo licenziamento. Anche una sola offesa può bastare.
Cosa significa per i lavoratori
Questo caso è un chiaro avvertimento per tutti: la fiducia tra azienda e lavoratori si regge su rispetto, disciplina e buona fede. Insultare un superiore, magari anche solo una volta, come “lecchino” – o in casi simili “sei un incompetente, non capisci nulla!”, “fatti i ca**i tuoi!”, “vai al diavolo!” –, può mettere fine al rapporto di lavoro senza possibilità di appello.
La Cassazione su questo punto è stata netta. L’insubordinazione, soprattutto quando avviene davanti ai colleghi, non trova giustificazioni. E, a differenza di casi controversi, questa sentenza appare quanto mai chiara: l’insulto grave al superiore integra l’insubordinazione e mette fine senza appello al rapporto di fiducia che è alla base di ogni impiego. Quindi è bene fare attenzione.