Comuni italiani a rischio default, il quadro generale
Non tira aria buona, per 470 amministrazioni comunali italiane, perché rischiano il default finanziario: vuoi per la pessima gestione degli ultimi anni, vuoi per mancati interventi strutturali da parte del governo. E in parte, anche, pesa la difficoltà di riscossione da parte dei Comuni, che sarebbe necessaria (anzi imprescindibile) per sostenere tutte le spese amministrative. Questo è il quadro che emerge da una ricerca portata avanti dalla Fondazione Nazionale dei Commercialisti, che evidenzia perciò la necessità di invertire al più presto la rotta attuale. Ma come?
Il presidente dell’Ordine dei commercialisti, Elbano de Nuccio, sottolinea qual è per lui il punto cruciale: bisogna “rafforzare i controlli nei Comuni sotto i 15mila abitanti”. Infatti, secondo l’indagine in questione, la crisi dei Comuni italiani investe in particolare i piccoli centri: il 45% delle 213 municipalità in dissesto finanziario conta meno di 5mila abitanti. Il resto è costituito da città fino ai 100mila abitanti. Con Catania come fanalino di coda, essendo ad oggi l’unico capoluogo di Provincia in netta difficoltà economica.
Ma non se la passano bene neppure i grandi centri. Napoli e Torino hanno amministrazioni claudicanti, così come Roma. Ed è lampante anche il divario tra le amministrazioni del Centro-Sud e quelle del Nord. Tra il 2012 e il 2024, le condizioni di dissesto con durata superiore ai 10 anni hanno riguardato 5 Comuni: sono andati tutti oltre l’arco temporale massimo previsto dalla legge. Negli ultimi 6 anni, poi, si è assistito a un incremento dei casi di casse comunali vuote, se si esclude il biennio Covid 2020-2021 con afflusso straordinario delle entrate. Superata infine la pandemia, nel 2023 siamo risaliti in Italia a 39 Comuni che hanno difficoltà a far quadrare i conti. Vediamo di seguito quali sono i casi più gravi oggi.
I casi Catania, Napoli, Torino e i comuni più a rischio
Partiamo da Catania. Ad oggi, la città siciliana è l’unico capoluogo in default conclamato. Una situazione drammatica, cui si aggiungono i casi altrettanto gravi di pre-dissesto, che riguardano 257 Comuni della nostra Penisola. Anche in questo caso, la metà delle amministrazioni coinvolte ha meno di 5mila abitanti e si concentra in maniera preponderante al Sud. Sono invece 12 i capoluoghi che (pur lontani dalle condizioni catanesi) dichiarano criticità finanziarie:
- Alessandria
- Andria
- Avellino
- Brindisi
- Lecce
- Imperia
- Messina
- Napoli
- Palermo
- Potenza
- Rieti
- Pescara
Non va certo meglio per i piccoli centri. E alcune municipalità di prima importanza navigano ugualmente in acque parecchio agitate: tra queste, spiccano Torino al nord e al sud Reggio Calabria. Per non parlare della capitale Roma, che conta all’incirca 3 miliardi di entrate accertate e non riscosse. Una visione d’insieme più ampia, poi, ce la dà la distribuzione percentuale (su base regionale e arrotondata per difetto) dei dissesti aperti in Italia. Eccola qui di seguito:
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- Sicilia, 69 dissesti aperti (il 32% del totale)
- Calabria, 52 dissesti (24%)
- Campania, 47 dissesti (cioè il 22%)
- Lazio, 15 dissesti (7% del totale)
- Puglia, 8 dissesti (4%)
- Abruzzo, 7 dissesti aperti (3%)
- Lombardia, 4 dissesti (2%)
- Basilicata, 3 dissesti (1%)
- Piemonte, 3 dissesti (1%)
- Molise, 2 dissesti (1%)
- Liguria, 1 dissesto aperto
- Marche, 1 dissesto
- Toscana, 1 dissesto
L’incapacità di incassare (più grave al Sud)
Quello che pesa maggiormente sul quadro – come si evince dalla ricerca della Fondazione Nazionale Commercialisti – è l’incapacità di riscossione da parte degli enti comunali. Senza riscossioni adeguate, mancano le risorse necessarie per una “sostenibilità di spesa” che non generi disavanzi. Lo mostra chiaramente anche un’elaborazione del 2022: c’è un nesso diretto tra la capacità di incassare e l’incidenza dei dissesti in Italia. Per cui minore è la quota di recupero delle risorse, maggiore diventa il rischio di andare incontro a criticità finanziarie. Un meccanismo semplice, che crea però grandi complicazioni.
Il divario crescente con il Nord
L’altro dato evidente, come anticipato, è il divario netto tra Comuni del Mezzogiorno e amministrazioni al Nord. Torino in questo senso pare solo un’isola “infelice”, in mezzo a tantissime città settentrionali che invece se la cavano discretamente. Secondo i dati del Ministero dell’Economia, il Comune di Portofino (Genova) ha il record assoluto in termini di ricchezza: 300 abitanti e un reddito di oltre 90mila euro pro capite. Il secondo comune più ricco è Lajatico (Pisa), con 52.955 euro pro capite. E al terzo posto si piazza Basiglio (Milano) con 49.523 euro, mentre Milano rientra nella “top ten”.
Insomma, il nord resta ricco, i Comuni se la cavano a livello amministrativo e i loro cittadini vivono con redditi di tutto rispetto, almeno in media. Al contrario, si assiste a un lento, inesorabile sprofondare delle piccole-medie città nel meridione. Se poi pensiamo che dovrà entrare in vigore (a meno di sorprese) un’autonomia differenziata estrema, cavallo di battaglia di questo Governo, allora è probabile che si passi dalla padella alla vera brace.
Esistono vie d’uscita?
Ma ragionando in senso ottimistico, per un attimo, è possibile in qualche modo arrestare la corsa al default dei Comuni italiani? Un primo passo potrebbe essere la revisione dell’attuale normativa, che è chiaramente inadeguata, con un rafforzamento pensato soprattutto per i controlli sui Comuni con meno di 15mila abitanti. Invece, il Governo pare ignorare l’evidenza con tutte le sue forze. L’ultima manovra ha previsto tagli alla spesa dal 2024 fino al 2028: verranno tagliati 250 milioni di euro l’anno per un totale di 1,25 miliardi. I Comuni più penalizzati saranno quelli che hanno ottenuto più fondi dal Pnrr.
Infatti una metà delle riduzioni andrà a toccare la spesa corrente, mentre l’altra metà sarà calcolata in proporzione ai fondi percepiti dal piano di ripresa europeo. Automatica allora protesta dei sindaci, in particolare quelli dei piccoli comuni al Sud, che hanno ricevuto in questi anni il 40% delle risorse. Così si comprometteranno servizi essenziali, dagli asili nido ai bonus famiglia. Annullando con un colpo di spugna l’utilità degli aiuti (comunque insufficienti) arrivati dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.