L’assegno di inclusione è un sussidio pensato per sostenere le famiglie in difficoltà, ma presenta ancora molte criticità. Alcuni beneficiari faticano a sentirsi davvero inclusi, non solo economicamente, ma anche socialmente e affettivamente. Ci sono storie che parlano di burocrazia, di lavori promessi mai arrivati, ma anche di solitudini silenziose e sacrifici nascosti.
Lucia: “Per farle sentire che era Pasqua anche per lei, ho dovuto vendere la sua collanina”
Lucia (nome di fantasia, ndr) ha 41 anni e vive da sola con sua figlia in una cittadina del centro Italia. Per mantenersi conta sull’ADI, ma tra bollette, affitto e spese minime, il margine è sempre stretto.
“Non mi lamento per me, ma mia figlia non ha colpe. A Pasqua volevo regalarle qualcosa, anche solo un peluche, una sorpresa. Così ho venduto una collanina che le avevano regalato quando era nata. Un ricordo importante, ma non potevo fare altrimenti.”
Lucia racconta che da quindici anni vive nella stessa città, eppure si sente sola.
“Non ho nessuno qui. I miei genitori non ci sono più, e con i miei fratelli non ho più rapporti. Vedo le famiglie nei parchi, i nonni coi nipoti, e sento il vuoto. Nessuno mi chiama, nessuno chiede come stiamo.”
Una solitudine che si aggiunge alla fatica economica.
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“L’ADI aiuta, certo, ma non basta. Mi avevano promesso percorsi formativi, colloqui di lavoro, ma non ho mai ricevuto proposte reali. Solo silenzi.”
ADI e il lato invisibile della povertà: quello emotivo
La storia di Lucia mette in luce un aspetto spesso sottovalutato: non è solo questione di soldi. Chi percepisce l’Assegno di Inclusione lotta ogni giorno anche contro lo stigma, l’indifferenza e la solitudine. E spesso, i percorsi di inclusione si perdono tra ritardi, corsi mai attivati e lavori inaccessibili.
L’ADI, nelle sue intenzioni, vuole essere uno strumento per reinserire nel tessuto sociale chi si trova in difficoltà. Ma le testimonianze raccontano anche di una rete che, a volte, lascia passare proprio chi avrebbe più bisogno di essere ascoltato.
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