Mentre due conflitti dividono il mondo, in Ucraina e a Gaza, l’Europa e l’Italia sembrano avvicinarsi a grandi passi a un’economia votata alla guerra. Ma pesanti investimenti negli armamenti, e aiuti militari e umanitari, non bastano per definire davvero un’economia di guerra. In che cosa consiste, dunque, questo tipo di approccio economico? E quali sono i rischi concreti, quindi i possibili scenari, che potrebbero verificarsi se il nostro Paese decidesse di effettivamente di entrare in guerra? Vediamo tutti i dettagli qui sotto.
Economia di guerra, cos’è e come funziona
L’economia di guerra altro non è che la completa riconversione di un intero sistema produttivo nazionale verso lo sforzo bellico. Questa definizione, piuttosto ampia, va a comprendere diversi ambiti economici che spaziano dall’industria all’energia, passando per i consumi e per la composizione della spesa nazionale. Se si guarda alla storia dello scorso secolo, nel corso delle due Guerre Mondiali l’Italia e gli altri paesi coinvolti hanno visto interi settori industriali, come quello metallurgico, destinare i loro impianti alla fabbricazione di armamenti, mentre la popolazione civile ha dovuto adattarsi in fretta a razionamenti e restrizioni.In sostanza, ogni risorsa disponibile è stata convogliata verso lo sforzo bellico, drenando non solo i comparti direttamente coinvolti nella costruzione di armamenti, ma anche altri settori cruciali come quello alimentare e quello energetico. Il risultato, ovviamente, è stato un crollo progressivo della qualità di vita dei cittadini, con un conseguente innalzamento dei livelli di povertà del paese. Talvolta, però, l’economia di guerra ha anche comportato come ‘effetto collaterale’ l’accelerazione di alcune tecnologie fortemente innovative. Così in breve tempo si sono sviluppati strumenti come il telegrafo, il motore a scoppio, e molto più recentemente internet. Anche se le conseguenze positive generate da queste tecnologie sono ricadute soprattutto sulle generazioni successive.
E oggi la situazione è ancora più complessa. Per effetto di una massiccia globalizzazione, le nazioni sono molto più interconnesse economicamente e molto più interdipendenti. E questo comporta effetti a valanga, nel caso in cui una o più nazioni decidano di entrare in guerra. Lo si è visto chiaramente con l’inizio dell’invasione russa in Ucraina nel 2022. Le sanzioni internazionali imposte sulla Russia hanno costretto l’Italia, l’Europa, e gran parte del mondo occidentale, a ripensare radicalmente l’approvvigionamento di gas ed energia. Cosa che ha avuto per molto tempo un effetto decisamente negativo sui prezzi di questi beni primari. In sostanza, anche se il nostro Paese non è stato direttamente coinvolto nella guerra, si è visto costretto ad adottare (in parte) un approccio vicino a quello dell’economia di guerra.
I rischi e i possibili scenari
Per fortuna, al momento siamo ben lontani da una vera e propria economia di guerra. Quindi i rischi legati a questo tipo di approccio sono solamente indiretti. Come ha sottolineato Stefano Manzocchi, docente di economia internazionale, in un’intervista rilasciata qualche tempo fa a Repubblica, la situazione odierna è più simile a “un’economia delle scorte” che a un’economia di guerra. In poche parole, il conflitto scoppiato in Ucraina ha costretto il nostro Paese a una gestione più razionale delle risorse strategiche, con un potenziale rischio di andare incontro a razionamenti energetici. Riuscire a sostituire completamente l’approvvigionamento di gas e petrolio dalla Russia, tuttavia, non è un’impresa facile né immediata. Si tratta di un processo lento, difficoltoso, che espone tra l’altro a grosse vulnerabilità nel breve termine.
In primis, si rischia un rallentamento dell’economia europea e italiana, con possibili revisioni al ribasso del Pil (come è già accaduto a ridosso dell’invasione in Ucraina). Inoltre, in un contesto simile, si teme l’avvento della cosiddetta stagflazione, cioè una combinazione di stagnazione economica e inflazione elevata, scenario che potrebbe mettere sotto forte pressione intere filiere, imprese e anche famiglie italiane. La stagflazione potrebbe infatti creare una sorta di circolo vizioso, riducendo la domanda interna e frenando ulteriormente la crescita. La sfida per il nostro Paese, e per l’Europa tutta, è quindi riuscire a trovare un equilibrio stabile tra indipendenza energetica e contenimento degli effetti inflazionistici. Evitando il più possibile l’introduzione di misure restrittive che potrebbero frenare la ripresa economica.
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Sfatare i miti
Oltre ai rischi (diretti o indiretti) legati all’economia di guerra, esistono anche parecchi falsi miti che è bene sfatare. Uno dei principali è la convinzione che l’economia di un paese guadagni dalla guerra. Ma si tratta di una concezione fuorviante, come dimostrato nel 2022 dal crollo del 30% del Pil Ucraino in seguito all’invasione russa. Perché anche se esistono settori, come quello dell’industria bellica, che possono trarre vantaggio dallo scoppio di un conflitto, la quota di Pil che rappresentano è irrisoria rispetto all’impatto devastante che la guerra ha sul resto dell’economia. Insomma, i benefici economici su alcuni settori non compensano affatto i danni che si estendono a tutte le altre filiere produttive della nazione.
La logica del conflitto, inoltre, si basa su una visione fallace e ormai superata: ovvero l’idea di dover combattere per accaparrarsi materie prime scarse, un approccio che in realtà distrugge valore e risorse. Quello che invece ci insegna l’economia di pace è l’importanza dell’interazione commerciale libera, che porta anche alla specializzazione tra paesi e aumenta significativamente la produttività e i risultati economici dei singoli stati. Oggi, è chiaro, questo approccio multilaterale e aperto è messo ampiamente in crisi dai conflitti in est Europa e in Medio Oriente. E comprendere le conseguenze di un’economia di guerra diventa cruciale, se vogliamo evitare il collasso e mantenere in salute il nostro sistema economico.