Che cos’è la web tax
La Digital services tax (Dst), nota anche come web tax, è stata introdotta in Italia nel 2020 sull’esempio di Paesi come Austria e Francia, in attesa di una normativa comune europea sulla tassazione dei giganti del web. Finora, la web tax al 3% sui ricavi digitali si applicava soltanto ai colossi tecnologici che superavano due soglie critiche: ricavi globali a 750 milioni di euro e almeno 5,5 milioni di fatturato (in territorio italiano).
La web tax prendeva di mira tre tipologie di servizi offerti da ‘giganti’ come Google, Meta e Amazon:
- La pubblicità online mirata a utenti italiani
- Le commissioni delle piattaforme che fanno da intermediarie tra venditori e compratori (come Booking o Amazon)
- La vendita dei dati degli utenti raccolti durante la navigazione
E l’obiettivo della tassa era chiaro: far pagare il giusto ammontare di imposte alle multinazionali tecnologiche che generano profitti nel nostro Paese. Dato che questi giganti del web, grazie a sedi legali in paesi con regimi fiscali favorevoli, pagavano imposte irrisorie sui guadagni effettuati nei territori europei.
Come cambierà la web tax nel 2025
Ora però cambia tutto. In base all’articolo 4 contenuto nella nuova Legge di Bilancio, il Governo ha deciso di introdurre una nuova versione della web tax eliminando del tutto le soglie minime di fatturato. L’imposta del 3% verrà applicata quindi ai ricavi di tutte le imprese digitali italiane, grandi o piccole che siano, senza alcuna distinzione. I tre principali servizi tassati resteranno gli stessi, ovvero: la pubblicità online mirata, i servizi di intermediazione e la vendita di dati raccolti sugli utenti. Saranno invece esclusi dalla tassazione altri tipi di servizi, come:
- La vendita diretta di beni e servizi online
- Gli acquisti effettuati sui siti web dei fornitori quando questi non fanno da intermediari
- Tutte le piattaforme che forniscono contenuti digitali, servizi di comunicazione oppure di pagamento
- I sistemi digitali usati per i regolamenti interbancari
Dalla modifica alla web tax, il Governo stima di poter ricavare all’incirca 51,6 milioni di euro. Ma non è tutto. Questa nuova misura fa parte di un disegno molto più ampio, che comprende anche l’aumento dal 26% al 42% della tassazione sulle plusvalenze delle criptovalute – con un ricavo previsto di 16,7 milioni – e un tetto alle detrazioni fiscali che interessa anche gli investimenti in startup. Da quest’ultima misura, lo Stato dovrebbe ottenere circa 90 milioni di euro di gettito aggiuntivo. Per un totale di 150 milioni garantiti dall’intero pacchetto.
Scarica la nostra app e risparmia con i bonus attivi in Italia:
L’impatto negativo sulle startup
L’estensione della web tax, tuttavia, rischia di diventare deleteria per le startup italiane e per tutte le piccole e medie imprese del settore. Come sottolinea infatti Roberto Liscia, presidente di Netcomm (consorzio che rappresenta più di 480 aziende del digitale italiano), “questa misura rappresenta un colpo di grazia sia per le imprese che operano nel settore dei servizi digitali, sia per quelle che usufruiscono di questi servizi, specialmente quelle più piccole o che sono nelle fasi iniziali della loro crescita”.
A pagare le conseguenze della nuova imposta, quindi, saranno soprattutto le piccole e medie imprese, che rappresentano più del 90% del tessuto imprenditoriale italiano. Inoltre, la nuova web tax rischia di innescare un “effetto cascata” lungo tutta la catena del valore digitale, perché le imprese che forniscono servizi digitali saranno costrette ad aumentare i prezzi per compensare i nuovi costi fiscali.
E anche la Fieg, la Federazione italiana editori di giornali, si dice perplessa dalla decisione presa dal Governo. “Con l’estensione della platea dei contribuenti”, si legge in una nota della Federazione, “l’epilogo della web-tax è paradossale: si colpiscono tutte le imprese digitali italiane, sottoponendole ad una duplice tassazione e accentuando così la disparità di trattamento e lo svantaggio competitivo nei confronti dei colossi globali del web”.
Una soluzione per evitare il disastro, come propone il presidente di Netcomm, sarebbe “rivedere l’ambito di applicazione della legge limitando l’imposta alle imprese digitali con profitti elevati. Sarebbe bene adottare una fiscalità ‘channel neutral’, ossia una tassazione che non penalizzi il canale digitale rispetto a quello fisico”. Il cambio di rotta è ancora possibile, dato che la Manovra 2025 è all’esame della Camera, e potrà subire interventi correttivi fino alla fine dell’anno. Ma non è affatto detto che ciò accadrà.