Bonus lavoratori, salta il banco
Partiamo dall’inflazione, per capire il rebus dei bonus. I prezzi salgono, gli stipendi degli italiani non salgono altrettanto. Questo meccanismo che è diventato la norma, negli ultimi anni, riduce il potere di acquisto di chi ha un reddito fisso, come i lavoratori dipendenti. Ma gli effetti dell’inflazione non si fermano qui. Come mostra infatti l’ultimo rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio, il meccanismo inflativo ha un’ulteriore conseguenza sui redditi: cancella completamente i vantaggi fiscali che erano stati assicurati ai lavoratori dipendenti.
Parliamo in sostanza di tutti i bonus fiscali messi in campo dai governi del nostro Paese negli ultimi 10 anni. In primis, il bonus da 80 euro introdotto dal governo di Matteo Renzi, nell’anno 2014, che poi è stato riformato nel 2020 e nel 2021. Ma c’è anche in tempi più recenti l’intervento di riduzione delle aliquote dell’imposta sulle persone fisiche (IRPEF), voluto fortemente, da quest’anno, dal governo Meloni. Quest’ultimo provvedimento-bonus non ha fatto che impoverire i già poveri, per dirla in soldoni, con una riduzione attestata di 2 punti percentuali per i redditi più bassi.
Dopo 10 anni in cui i vari governi italiani hanno cambiato (e ri-cambiato) il sistema fiscale – con bonus e sconti costosissimi per lo Stato -, i lavoratori dipendenti ora si trovano a pagare ancora più tasse che nel 2014. Il reddito disponibile crolla. Quindi i bonus fiscali non funzionano, o almeno non quanto si sperava. E scendendo in maggiori tecnicismi, il meccanismo che rende i bonus inefficaci è un fenomeno che in economia si chiama “fiscal drag” (ovvero drenaggio fiscale). Vediamo adesso di cosa si tratta.
Il “fiscal drag” annulla i bonus
Il “fiscal drag” è un effetto dell’inflazione (negativo) sui redditi e ha luogo nei sistemi fiscali cosiddetti “progressivi”, cioè quelli in cui chi ha redditi più alti paga più tasse. Il sistema fiscale italiano a scaglioni dell’IRPEF, dunque, rientra in questa categoria, motivo per cui all’aumentare del reddito di una persona aumenta anche l’aliquota, vale a dire la percentuale applicata per calcolare le imposte da pagare. Parliamo in pratica di un’aliquota del 23% per i primi 28mila euro di reddito, del 35% quando si sale tra i 28 e i 50mila euro, poi del 43% oltre i 50mila euro.
In realtà il “fiscal drag” avrebbe anche senso, in uno scenario ideale. Perché punta sul graduale aumento degli stipendi in risposta all’inflazione, cioè all’aumento del costo della vita. Quando quest’ultimo cresce, in teoria, dovrebbero crescere anche gli stipendi dei lavoratori, o quantomeno esistono più incentivi a chiedere un aumento di stipendio per recuperare il potere d’acquisto perso. Inoltre i rinnovi contrattuali, negoziati periodicamente tra le aziende e i vari sindacati, prevedono con l’inflazione aumenti più sostanziosi. Ma la realtà dei fatti è un’altra. L’aumento degli stipendi non riesce a tenere il passo con il meccanismo inflativo. Da qui, un circolo vizioso difficile da arrestare.
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Con l’inflazione cresce la base imponibile su cui si calcolano le tasse, come dimostra anche il gettito fiscale raccolto dallo Stato, che negli anni caratterizzati da alta inflazione è salito a causa dell’aumento dei prezzi, mediante l’IVA, e in parte dei redditi, tramite l’IRPEF. A questo si aggiunge il “malus” dei bonus, per così dire. Infatti l’Ufficio parlamentare di bilancio ha calcolato che con tutte le misure bonus degli ultimi 10 anni, i lavoratori dipendenti hanno sì avuto complessivamente un vantaggio fiscale del 3 per cento. Ma tale vantaggio è stato completamente annullato dal “fiscal drag”. Rieccoci dunque al punto di partenza. Questo fantomatico “fiscal drag” ha finito per ridurre i redditi disponibili del 3,6 %. Esempio cristallino: oggi rispetto al 2014, un lavoratore dipendente con 20mila euro di reddito paga 319 euro in più di IRPEF all’anno, mentre chi ha 100mila euro di reddito paga 1.020 euro in più ogni anno.
Il rischio per chi ha redditi medi
Esiste anche un altro problema. Chi ha redditi negli scaglioni medi, cioè intorno ai 35mila euro, oggi rischia di perdere il bonus sui contributi, introdotto dal governo Draghi e poi e ampliato dal governo Meloni. Parliamo della misura nota come “taglio del cuneo fiscale” (dove il cuneo fiscale è in sostanza la differenza tra quanto le imprese spendono per un dipendente e quanto effettivamente viene pagato come stipendio). Il taglio del cuneo ha effetti evidenti sulle buste paga dei lavoratori dipendenti, il cui stipendio netto è infatti aumentato di conseguenza. Ma il problema è che si sono ridotti i contributi pagati da questi stessi lavoratori agli istituti di previdenza e assistenza, l’INPS e l’INAIL, la cui differenza è coperta dallo Stato.
Quindi, chi ha guadagnato anche solo 1 euro in più rispetto al proprio scaglione di riferimento, ora vede ridursi il bonus (se supera i 25mila euro) oppure deve addirittura rinunciare del tutto all’agevolazione (se supera i 35mila euro di stipendio). Con perdite che si attestano sui 150 euro annui quando si superano i 25mila euro e 1.100 euro quando si superano invece i 35mila. In pratica si ha una distorsione, così viene definita, di tutti quei redditi che si trovano “a cavallo” delle aliquote. Il sistema fiscale si fa perciò sempre più ingiusto, e come sottolinea l’Ufficio parlamentare di bilancio si genera “una trappola della povertà” vicino alle due soglie di reddito: tradotto, non c’è nessun incentivo a guadagnare di più, perché il vantaggio di ogni euro aggiuntivo è più che compensato dalla perdita di bonus fiscali o dall’aumento delle tasse. Un bel guaio.
Perché i bonus non funzionano più
Tirando le somme, è evidente che i bonus fiscali hanno fallito la missione. Non è più un meccanismo funzionale, questo, non con l’inflazione del periodo attuale e con l’attuale stato del mondo del lavoro. Ma alla politica conviene continuare con i “contentini” dei bonus, ovviamente. Perché il cittadino medio percepisce subito la differenza in busta paga, e tanto basta per sentirsi più in pace di prima con il Governo. Alla lunga, però, questi aiuti fiscali ai lavoratori dipendenti pesano come macigni sul bilancio dello Stato: quindi arriva il conto (salato) da pagare. E lo paghiamo noi.
Perché la decontribuzione decantata diventa un disincentivo all’aumento dei redditi, è controproducente per le società, rende più difficile ai sindacati e alle imprese negoziare il rinnovo dei contratti. Fino alla fine del 2024 il finanziamento di questo meccanismo arrugginito è blindato. Va bene. Ma poi bisognerà vedere se riconfermarlo, ridimensionarlo, oppure cancellarlo e basta. Si potrebbero introdurre dei correttivi, ad esempio, per evitare la perdita netta del beneficio da una fascia all’altra di reddito, magari con una riduzione graduale. Ma al contempo servirebbero altri soldi per finanziare questi correttivi. Un bel dilemma.
Oppure si potrebbe spalmare la cifra di 11 miliardi, quelli stanziati ad oggi, su una platea più ampia di lavoratori dipendenti, riducendo così l’impatto sui redditi. Comunque sia, una chiusura del caso la offre con chiarezza il giornalista del “Foglio” Luciano Capone: oggi “il governo Meloni è vittima della sua misura di successo: non ha i soldi per migliorarla ampliandola e non vuole pagare il prezzo politico per migliorarla riducendola. Al massimo spera di confermarla”. Ma da dove verranno presi, esattamente, i sodi per farlo?