Pensioni e riforma, cosa non funziona
L’ennesima riforma delle pensioni è in cantiere, e ancora una volta sono poche (al momento) le buone notizie. Il Governo Meloni, infatti, punta forte sull’idea Quota 41 per tutti i cittadini: si pensa a una pensione indipendente dall’età anagrafica, a patto di aver maturato 41 anni di contributi. Ma i numeri, quindi la situazione economica italiana, parlano di una corda che è bene non tendere troppo. Rimanendo infatti realisti, è evidente che le probabilità di passare da Quota 103 a Quota 41 per tutti quanti, anche mantenendo la penalizzazione in uscita, sono bassissime.
In più, anche se si riuscisse con un miracolo (scovando i soldi chissà dove) a garantire Quota 41 per tutti, questa soluzione in realtà sarebbe molto meno rosea di quanto non appaia a un primo sguardo. Perché esistono problemi seri con questa misura. Primo fra tutti il fatto che Quota 41 è una misura particolarmente selettiva, che tende a escludere le categorie più fragili e favorire invece chi potrebbe, con un piccolo sforzo, restare al lavoro per qualche anno in più.
I tre problemi della riforma pensioni
Ma andando per gradi, i problemi della riforma delle pensioni a Quota 41 si possono suddividere in tre macro-categorie. Ecco quali sono:
- Mancano i fondi per l’attuazione di Quota 41 per tutti
- Quota 41 sarebbe svantaggiosa e poco attrattiva per i lavoratori più poveri
- La pensione a Quota 41 rischia di servire solo a pochi (già fortunati)
Vediamo, punto per punto, i tre problemi principali del provvedimento voluto dal Governo in carica.
L’utopia dei fondi per Quota 41
Partiamo dal problema più evidente. Con una premessa necessaria. In teoria, Quota 41 garantirebbe per tutti gli italiani un accesso alla pensione con 41 anni di contributi, indipendentemente dall’età anagrafica. Quindi si andrebbe in contro-tendenza rispetto alla precedente Quota 103, dove la pensione era vincolata comunque al compimento dei 62 anni di età. Il punto, però, è che garantire un sistema di pensionamento del genere, senza discriminanti sull’età, risulta utopia pura (su base economica).
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Insomma non ci sono i fondi. Se ne lamentava Giorgetti non molto tempo fa, mentre il resto dell’esecutivo faceva orecchie da mercante. Quota 41 costerebbe molto di più allo Stato rispetto a Quota 103, perché si rivolge a una platea di fruitori molto più ampia. E a questo maggior costo, come se non bastasse, si aggiungono anche le previsioni nerissime della prossima legge di Bilancio 2025. Si preannunciano meno risorse rispetto agli anni scorsi, con il Governo che non potrà più ricorrere al salvagente dell’extra deficit. Al contrario. Si dovrà trovare assolutamente un modo per dare il via al piano di recupero del debito. Cosa che ovviamente limiterà i fondi a disposizione.
Morale della favola: passare da Quota 103 a Quota 41 sarà possibile solo e soltanto tagliando parecchio in altri ambiti. Ma è davvero giusto togliere fondi ai servizi pubblici, ad esempio alla sanità già martoriata, per finanziare un’idea che suona molto meglio di quanto in realtà non sia? La risposta dovrebbe darla chi governa, anche se pare già chiara.
Perché Quota 41 non è attrattiva per tutti
Secondo punto critico. Per estendere a tutti i lavoratori la possibilità di accedere alla pensione indipendentemente dall’età, è necessario calcolare una penalizzazione in uscita. Solo così si potranno limitare i costi, che altrimenti sarebbero esorbitanti: fino a 5 miliardi di euro l’anno. In pratica il Governo dovrebbe muoversi come ha già fatto per Quota 103, con la legge di Bilancio 2024, cioè fissare un ricalcolo contributivo per coloro accedono alla nuova Quota 41.
Così l’intera pensione, anche per la quota antecedente al 1996, sarebbe calcolata applicando le regole previste dal regime contributivo, portando a una riduzione in media del 20%. Ma in alcuni casi limite, quando cioè la quota che rientra nel retributivo è particolarmente rilevante, la riduzione della pensione potrà superare anche il 20% qui ipotizzato. Ovvio allora che i sindacati si stiano opponendo all’idea di una Quota 41 “a tappeto”. Ci sarebbe un chiaro disincentivo al pensionamento anticipato, non si attirerebbe in alcun modo l’attenzione dei lavoratori. E di sicuro non quella dei lavoratori più “poveri”, che non possono permettersi in alcun modo di rinunciare a qualche centinaio di euro sulla pensione.
Una misura per pochi (fortunati)
Ecco allora che Quota 41 diventa la misura dei fortunati. Chi sta già bene, non fa lavori usuranti, guadagna discretamente, può permettersi di pensare a una misura pensionistica di questo tipo. Tutti gli altri no. Un precedente chiaro è quello di Quota 100, che tra il 2019 e il 2021 permetteva di andare in pensione con 38 anni di contributi. In quel caso, solo chi aveva avuto una carriera agiata riusciva a soddisfare i requisiti per accedere alle agevolazioni. Lo stesso vale per il nuovo provvedimento studiato dall’esecutivo.
Chi può godere di un’ipotetica Quota 41 sono gli uomini dipendenti pubblici, soprattutto. Mentre le donne e i lavoratori appartenenti alle categorie più fragili, in sostanza, rimarrebbero con un pugno di mosche. E la disparità rischia di accentuarsi con la previsione del ricalcolo contributivo: chi si è già garantito una pensione d’importo adeguato, può accettare una riduzione dell’assegno pensionistico; chi al contrario ha avuto una carriera con stipendi più bassi, o vuoti contributivi, non avrà alcun interesse a servirsi della tanto decantata Quota 41. Quindi si torna all’interrogativo principale. Davvero ne vale la pena? E ancora: lo Stato italiano, e poi i suoi cittadini, possono permettersi davvero l’ennesima misura senza criterio?